Adattamento, efficienza e Movimento

The body will become better at whatever you do, or don’t do.

If you don’t move, your body will make you better at not moving.

If you move, your body will allow more movement.

— Ido Portal

Non muovi una qualche articolazione? Bene, il tuo corpo si calcificherà attorno ad essa, accorciando i tessuti connettivi, diminuendo l’innervazione dei muscoli, cannibalizzando le connessioni neurologiche adibite a quella funzione, ecc.

In pratica rendendo migliore l’articolazione nel fare ciò che chiedi, cioè nel NON muoversi.

E in questo infatti diventerà efficiente, perché è molto più efficiente rispetto al mantenere proteine, nervi, afflusso di sangue, sinapsi (che sono tutti elementi metabolicamente molto costosi in termini energetici) per qualcosa che in realtà non usi.

In questo contesto emerge come fondamentale il concetto secondo cui l’efficienza è il fine ultimo nell’evoluzione, il dictat del corpo umano.

Questa efficienza che il corpo ricerca si concretizza nell’ adattamento agli stimoli esterni da parte di tutte le strutture e i tessuti che lo compongono e che sono soggette a tali stimoli: tessuto connettivo, che include tendini, legamenti, menischi, cartilagini, ma anche ossa, la cosiddetta fascia, ecc.

Seppur diversi per composizione e funzione (ed è la funzione stessa per cui sono state progettate tali parti che ne determina la forma: resistenza a trazione piuttosto che a compressione o torsione comportano una diversa disposizione, dimensione e risposta delle fibre che compongono le strutture considerate), se sottoposti a stimolo adeguato (l’ammontare di forza che chiediamo sia gestita da tali tessuti), essi si modificano, adattandosi per rispondere alla domanda (carico) considerato.

Per fare un esempio concreto, consideriamo legamenti e tendini: i primi fungono da collegamento tra due strutture separate, i secondi per trasmettere le forze tra muscoli e ossa in predeterminate direzioni. Tali forze per entrambi i tessuti sono sostanzialmente forze di trazione, le quali sono assorbite dalla particolare sostanza delle fibre che li costituiscono, il collagene, nonché dalla disposizione di tali fibre (che si dispongono nella stessa direzione di applicazione delle forze in gioco). All’aumentare del carico il corpo risponde con un adattamento, aumentando la quantità di collagene messa in gioco e irrobustendo le fibre.

Numerosi studi confermano infatti che tendini e legamenti rispondono positivamente all’esercizio: in altre parole “tendini e legamenti NECESSITANO di essere caricati”.

Un ulteriore esempio è quello relativo a quei tessuti la cui funzione invece è quella di resistere a forze di compressione: ossa, cartilagine, menischi.

Anche questi, analogamente ai precedenti, rispondono positivamente alle sollecitazioni adeguate: le prime, cambiando la propria densità e composizione, diventano più forti; le cartilagini, grazie alla loro composizione ricca di collagene, acido ialuronico e acqua, permettono il moto di un’articolazione riducendone gli attriti e se opportunamente sollecitate si adattano migliorando la qualità della propria struttura. Infine i menischi, tramite il movimento e l’esercizio traggono nutrimento dal flusso del liquido sinoviale favorito dalle compressioni che avvengono nell’articolazione del ginocchio, prolungando la propria salute e longevità.

Diametralmente opposta è la situazione dell’Immobilizzazione: è altrettanto vero infatti che il suddetto adattamento è una strada a doppio senso: se ci muoviamo, otteniamo più funzionalità nelle parti in movimento, ma se invece le lasciamo immobilizzate, si verificano alcuni adattamenti negativi, tra cui la randomizzazione nelle direzioni assunte dalle fibre di collagene (l’opposto della suddetta preziosa organizzazione in tendini e legamenti), l’incapacità dei fasci di collagene di scivolare facilmente l’uno accanto all’altro (a causa del reticolazione casuale e della perdita di acqua) e dalla sostituzione dei tipi di collagene, che sono meno forti rispetto al collagene originale.

Quanto velocemente avviene questo deterioramento? Abbastanza velocemente. L’immobilizzazione riduce la rigidità del tendine entro 20 giorni (Kubo, 2004). Bastano nove settimane per cambiare la struttura del legamento al punto che ci vuole un anno per riguadagnare la normale funzione (Hubbard & HicksLittle, 2008). Dopo questo tipo di cambiamenti, c’è un rischio sostanzialmente maggiore di rottura del tendine o del legamento.

Al contrario il movimento rappresenta un approccio migliore in presenza di un tendine infortunato: negli esseri umani, gli studi hanno dimostrato che il caricamento accelera la guarigione del tendine. Dodici settimane dopo l’infortunio, tendini riparati che sono stati trattati con carico precoce avevano una forza maggiore di tendini riparati trattati con un periodo iniziale di immobilizzazione (Buckwalter & Grodzinsky, 1999).

Nelle ossa l’immobilizzazione, per ad esempio indossando per troppo tempo un gesso o un tutore a seguito di infortunio, provoca una perdita di densità ossea e una riduzione della formazione di nuovo tessuto: a grandi linee la massa ossea può diminuire fino a metà del normale entro 12 settimane, con una sostanziale riduzione della forza e aumento della probabilità di frattura (Buckwalter & Grodzinsky, 1999). A ciò si aggiunge il fatto che sono necessari mesi per ripristinare la funzione ossea di base dopo tale deterioramento.

Nonostante l’azione più comune e immediata di fronte ad un osso fratturato sia l’immobilizzarlo, numerosi studi dimostrano che caricare l’osso non appena subito dopo la frattura è benefico (Buckwalter & Grodzinsky, 1999). Le ricerche dimostrano che tale caricamento aiuta aumentare il volume, l’organizzazione e la composizione del “callo fratturale” (la porzione di osso che si forma per riparare la frattura).

Concludendo l’ampissimo discorso sull’adattamento al Movimento, solo toccato a grandi linee in questo articolo, è significativo sottolineare che esistono due approcci su cui porre l’attenzione per valutare i cambiamenti nello stato di adattamento del corpo e dei tessuti:

  1. Nel breve termine, i tessuti, se non sono sufficientemente preparati per la sollecitazione a cui sono sottoposti, possono subire dei danni (i quali possono a loro volta causare dolore): infatti se il corpo è esposto a un movimento che sollecita i tessuti in un modo per il quale il corpo stesso risulta essere impreparato, ciò attiva i recettori adibiti al dolore (nocicettori). Inoltre, il corpo usa altri recettori per ottenere informazioni relative a propriocezione, stabilità, ecc., per riconoscere una potenziale minaccia. Se la conclusione è che esiste davvero una minaccia per il corpo, l’output sarà il dolore.
  2. Nel lungo termine, i tessuti possono invece adattarsi (in risposta a vari stimoli, sia legati al movimento o all’assenza dello stesso). In altri termini l’adattamento avviene in entrambi i modi: il primo da ricercare (in virtù del quale migliora la capacità di trasmettere forze al presentarsi di compiti e richieste future), mentre il secondo non desiderabile (orientato all’aumento dei rischi di rottura).

Riflessioni analoghe e più approfondite potrebbero essere fatti anche per altre tipologie di tessuti presenti nel corpo umano (muscolare, nervoso, epiteliale, ecc.), ma in questa sede lo scopo è sottolineare un’ultima volta il concetto seguente: i tessuti rispondono ai segnali che inviamo loro, e pertanto possiamo sviluppare tessuti che sono più resistenti, preparandoli e preservandoli dagli infortuni, ma anche che nel caso questi di verificassero risulterebbe possibile guidare il nostro recupero dalle lesioni tramite il Movimento e che l’immobilizzazione dovrebbe sempre essere l’ultima risorsa da adottare.

Non esiste infatti un pulsante di pausa sull’adattamento fisiologico del corpo. Come visto, se smettiamo di muoverci anche per un breve periodo di tempo, il corpo risponderà nel miglior modo possibile, e cioè

supponendo che non necessitiamo più il movimento e comincerà a rimuovere tutti gli elementi dispendiosi e i componenti che costituiscono la nostra capacità di movimento.

La conclusione è la semplice consapevolezza a cui ognuno di noi dovrebbe giungere e cioè che

Il movimento è necessario.

“What are you moving towards?”

(Ido Portal)

Adattamento, efficienza e Movimento

The body will become better at whatever you do, or don’t do.

If you don’t move, your body will make you better at not moving.

If you move, your body will allow more movement.

— Ido Portal

Durante la tua giornata, le tue attività ordinarie, o anche nelle pratiche sportive che svolgi, ti capita di non muovere una qualche articolazione? Sei stato coinvolto in un infortunio e da allora sei restio ad utilizzare la parte del corpo interessata?

Se la risposta alle domande precedenti è “si”, allora fai attenzione: è praticamente garantito che il tuo corpo si calcificherà attorno a questa articolazione, accorciando i tessuti connettivi, diminuendo l’innervazione dei muscoli, cannibalizzando le connessioni neurologiche adibite a quella funzione, ecc.

In pratica rendendo migliore l’articolazione nel fare ciò che chiedi, cioè nel NON muoversi.

E in questo infatti diventerà efficiente, perché è molto più efficiente rispetto al mantenere proteine, nervi, afflusso di sangue, sinapsi (che sono tutti elementi metabolicamente molto costosi in termini energetici) per qualcosa che in realtà non usi.

In questo contesto emerge come fondamentale il concetto secondo cui l’efficienza è il fine ultimo nell’evoluzione, il dictat del corpo umano.

Questa efficienza che il corpo ricerca si concretizza nell’ adattamento agli stimoli esterni da parte di tutte le strutture e i tessuti che lo compongono e che sono soggette a tali stimoli: tessuto connettivo, che include tendini, legamenti, menischi, cartilagini, ma anche ossa, la cosiddetta fascia, ecc.

Seppur diversi per composizione e funzione (ed è la funzione stessa per cui sono state progettate tali parti che ne determina la forma: resistenza a trazione piuttosto che a compressione o torsione comportano una diversa disposizione, dimensione e risposta delle fibre che compongono le strutture considerate), se sottoposti a stimolo adeguato (l’ammontare di forza che chiediamo sia gestita da tali tessuti), essi si modificano, adattandosi per rispondere alla domanda (carico) considerato.

Legamenti & Tendini

Per fare un esempio concreto, consideriamo legamenti e tendini: i primi fungono da collegamento tra due strutture separate, i secondi per trasmettere le forze tra muscoli e ossa in predeterminate direzioni. Tali forze per entrambi i tessuti sono sostanzialmente forze di trazione, le quali sono assorbite dalla particolare sostanza delle fibre che li costituiscono, il collagene, nonché dalla disposizione di tali fibre (che si dispongono nella stessa direzione di applicazione delle forze in gioco). All’aumentare del carico il corpo risponde con un adattamento, aumentando la quantità di collagene messa in gioco e irrobustendo le fibre.

Numerosi studi confermano infatti che tendini e legamenti rispondono positivamente all’esercizio: in altre parole “tendini e legamenti NECESSITANO di essere caricati”.

Ossa, cartilagini, menischi

Un ulteriore esempio è quello relativo a quei tessuti la cui funzione invece è quella di resistere a forze di compressione: ossa, cartilagine, menischi.

Anche questi, analogamente ai precedenti, rispondono positivamente alle sollecitazioni adeguate: le prime, cambiando la propria densità e composizione, diventano più forti; le cartilagini, grazie alla loro composizione ricca di collagene, acido ialuronico e acqua, permettono il moto di un’articolazione riducendone gli attriti e se opportunamente sollecitate si adattano migliorando la qualità della propria struttura. Infine i menischi, tramite il movimento e l’esercizio traggono nutrimento dal flusso del liquido sinoviale favorito dalle compressioni che avvengono nell’articolazione del ginocchio, prolungando la propria salute e longevità.

L’immobilizzazione: preservare o aggravare il danno?

Diametralmente opposta è la situazione dell’Immobilizzazione: è altrettanto vero infatti che il suddetto adattamento è una strada a doppio senso: se ci muoviamo, otteniamo più funzionalità nelle parti in movimento, ma se invece le lasciamo immobilizzate, si verificano alcuni adattamenti negativi, tra cui la randomizzazione nelle direzioni assunte dalle fibre di collagene (l’opposto della suddetta preziosa organizzazione in tendini e legamenti), l’incapacità dei fasci di collagene di scivolare facilmente l’uno accanto all’altro (a causa del reticolazione casuale e della perdita di acqua) e dalla sostituzione dei tipi di collagene, che sono meno forti rispetto al collagene originale.

Quanto velocemente avviene questo deterioramento? Abbastanza velocemente. L’immobilizzazione riduce la rigidità del tendine entro 20 giorni (Kubo, 2004). Bastano nove settimane per cambiare la struttura del legamento al punto che ci vuole un anno per riguadagnare la normale funzione (Hubbard & HicksLittle, 2008). Dopo questo tipo di cambiamenti, c’è un rischio sostanzialmente maggiore di rottura del tendine o del legamento.

Al contrario il movimento rappresenta un approccio migliore in presenza di un tendine infortunato: negli esseri umani, gli studi hanno dimostrato che il caricamento accelera la guarigione del tendine. Dodici settimane dopo l’infortunio, tendini riparati che sono stati trattati con carico precoce avevano una forza maggiore di tendini riparati trattati con un periodo iniziale di immobilizzazione (Buckwalter & Grodzinsky, 1999).

Nelle ossa l’immobilizzazione, per ad esempio indossando per troppo tempo un gesso o un tutore a seguito di infortunio, provoca una perdita di densità ossea e una riduzione della formazione di nuovo tessuto: a grandi linee la massa ossea può diminuire fino a metà del normale entro 12 settimane, con una sostanziale riduzione della forza e aumento della probabilità di frattura (Buckwalter & Grodzinsky, 1999). A ciò si aggiunge il fatto che sono necessari mesi per ripristinare la funzione ossea di base dopo tale deterioramento.

Nonostante l’azione più comune e immediata di fronte ad un osso fratturato sia l’immobilizzarlo, numerosi studi dimostrano che caricare l’osso non appena subito dopo la frattura è benefico (Buckwalter & Grodzinsky, 1999). Le ricerche dimostrano che tale caricamento aiuta aumentare il volume, l’organizzazione e la composizione del “callo fratturale” (la porzione di osso che si forma per riparare la frattura).

Conclusioni

Concludendo l’ampissimo discorso sull’adattamento al Movimento, solo toccato a grandi linee in questo articolo, è significativo sottolineare che esistono due approcci su cui porre l’attenzione per valutare i cambiamenti nello stato di adattamento del corpo e dei tessuti:

  1. Nel breve termine, i tessuti, se non sono sufficientemente preparati per la sollecitazione a cui sono sottoposti, possono subire dei danni (i quali possono a loro volta causare dolore): infatti se il corpo è esposto a un movimento che sollecita i tessuti in un modo per il quale il corpo stesso risulta essere impreparato, ciò attiva i recettori adibiti al dolore (nocicettori). Inoltre, il corpo usa altri recettori per ottenere informazioni relative a propriocezione, stabilità, ecc., per riconoscere una potenziale minaccia. Se la conclusione è che esiste davvero una minaccia per il corpo, l’output sarà il dolore.
  2. Nel lungo termine, i tessuti possono invece adattarsi (in risposta a vari stimoli, sia legati al movimento o all’assenza dello stesso). In altri termini l’adattamento avviene in entrambi i modi: il primo da ricercare (in virtù del quale migliora la capacità di trasmettere forze al presentarsi di compiti e richieste future), mentre il secondo non desiderabile (orientato all’aumento dei rischi di rottura).

Riflessioni analoghe e più approfondite potrebbero essere fatti anche per altre tipologie di tessuti presenti nel corpo umano (muscolare, nervoso, epiteliale, ecc.), ma in questa sede lo scopo è sottolineare un’ultima volta il concetto seguente: i tessuti rispondono ai segnali che inviamo loro, e pertanto possiamo sviluppare tessuti che sono più resistenti, preparandoli e preservandoli dagli infortuni, ma anche che nel caso questi di verificassero risulterebbe possibile guidare il nostro recupero dalle lesioni tramite il Movimento e che l’immobilizzazione dovrebbe sempre essere l’ultima risorsa da adottare.

Non esiste infatti un pulsante di pausa sull’adattamento fisiologico del corpo. Come visto, se smettiamo di muoverci anche per un breve periodo di tempo, il corpo risponderà nel miglior modo possibile, e cioè

supponendo che non necessitiamo più il movimento e comincerà a rimuovere tutti gli elementi dispendiosi e i componenti che costituiscono la nostra capacità di movimento.

La conclusione è la semplice consapevolezza a cui ognuno di noi dovrebbe giungere e cioè che

Il movimento è necessario.

“What are you moving towards?”

(Ido Portal)